Quando Bahar Hamzehpour mi ha mostrato la prima volta Ire-volution, una delle sue opere più intense e coinvolgenti, esposta in questa mostra e composta da un grande rotolo di carta giapponese di circa 6 metri di lunghezza, mi sono posto diversi interrogativi. Srotolandolo davanti a me e appendendolo poi in alto su una parete, quasi fino al soffitto in modo da farlo scendere e occupare anche una consistente porzione di pavimento il lavoro risulta saturato da una progressiva sequenza di lettere-segni che si moltiplicano e si intrecciano fra di loro. Una sorta di caduta vertiginosa dall’alto verso il basso che sembra anche una inesorabile perdita di senso della trama di un testo. Bahar si serve di parole che si sovrappongono e si infittiscono sempre di più, fino a creare un groviglio nero e indistinto di pigmento concentrato.
R.P.: In questo tuo lavoro installativo le tematiche che riguardano il linguaggio, le parole, le frasi scritte in persiano e la molteplicità dei significati delle lettere associate fra loro, mi fanno venire in mente aspetti che hanno a che fare con il bisogno, la necessità di comunicazione e allo stesso tempo con l’impossibilità (continua) di riuscire a farlo. Il verbo viene trasfigurato lentamente ma inesorabilmente in un’unica oscura immagine grafica, quasi fosse un flusso indistinto e torbido di possibili discorsi annodati fra loro. Ti corrisponde questa lettura? Vorrei cominciare proprio da questo bellissimo lavoro per chiederti il senso che dài a queste parole.
B.H.: Sì, questa lettura si avvicina profondamente alla mia intenzione. Ire-volution è un opera che esprime la complessità della comunicazione, la necessità di esplorare il proprio io e l’inevitabile sfida di farlo in modo completo. In questo lavoro, il linguaggio assume una forma unica attraverso l’utilizzo della lingua persiana per costruire la parola “Vulcano”, unendo le parole “fuoco” e “eruzione” in sette lettere. Le lettere si sovrappongono gradualmente, formando uno strato dopo l’altro fino a creare un nero totale. Nel silenzio che precede la metamorfosi, un magma interiore affiora dietro le quinte dell’anima. Il flusso verbale esplode: ogni parola incisa sulla carta è come lava liberata con travolgente vigore espressivo. La rabbia ondeggia liberamente nella luce delle parole, trasformandosi nei passi di una coreografia emotiva. Ogni tratto diventa un gesto controllato di questa eruzione verbale, una liberazione dell’energia accumulata attraverso la delicata danza tra le emozioni. La carta si rivela, creando un’atmosfera dove il fuoco interiore trova espressione, come un segreto svelato nel chiarore della creatività. In questo balletto tra parole e fuoco, la carta diventa una scenografia narrativa che dipana la storia di una passione vulcanica fino all’ultimo atto. Poi, come un’ombra sottile, la scrittura, ripetendosi, si trastorma in pura immagine, in un enigma nascosto tra le righe.
R.P.: Dalle tue parole emergono espressioni e soprattutto immagini che hanno molto a che fare con concetti legati allo sprigionamento di energia compressa, di emissione, di fuoriuscita poderosa quasi inarrestabile. In altri termini manifestazioni che incarnano quasi una visione di disfacimento e di conseguente liberazione finale. La fase processuale si percepisce come travagliata e addirittura dolorosa…
B.H.: Questo processo, per me, supera il mero atto creativo e assume una dimensione terapeutica simile a una sorta di meditazione. La ripetizione continua e il confronto con le sfide durante la realizzazione mi permettono di esplorare le profondità della mia interiorità, di affrontare le paure e le ferite personali.
R.P.: In questo senso, entrando in contatto ravvicinato con le tue opere, ovviamente non possiamo prescindere dal fatto che esse appaiono, direi in modo evidente, Indissolubilmente legate sia alla tua storia personale che a quella dell’Iran, tua patria d’origine.
B.H.: Assolutamente sì, le mie opere sono intrinsecamente connesse alla storia della mia terra e a quelle della mia comunità. Sono il riflesso della mia vita vissuta, sia come donna con unanima un po anar-chica, sia come individuo che ha lasciato il suo paese ma che porta ancora con sé un senso di colpa per non essere rimasta a combattere. I temi affrontati sono innevabilmente sociali, ma il processo lento e faticoso che caratterizza il mio lavoro è una scelta deliberata. È come se volessi punirmi, ma allo stesso tempo purificarmi mediante questa esperienza. I miei lavori dicono ciò che non ho potuto fare nella realtà.
R.P.: Attraverso il tuo operare artistico, sembrerebbe quasi attuarsi una sorta di catarsi, mentre invece potremmo dire più esattamente, un lento, lentissimo processo di espiazione continuo e inesorabile ma che purtroppo spesso non è risolutivo. Questa caratteristica fra l’altro non è immediatamente individuabile fra le pieghe delle tue carte installate e nei tuoi rotoli densi di grafie fitte e ripetute. A questo proposito mi torna in mente una figura mitologica, alla quale hai fatto riferimento più volte durante le nostre conversazioni, in cui questa espiazione avviene appunto senza catarsi finale. Quella del mito di Sisifo. Ti va di parlarne?
B.H.: Confermo. I miei lavori non mi portano a una liberazione immediata delle emozioni, ma a una riflessione graduale sulle sfide della vita. Vorrei spiegare meglio cosa intendo parlando di un altro lavoro presente in mostra dal titolo “Just a ride”. Mi sono confrontata con la quotidianità. Ogni giorno sono costretta a salire e scendere 120 gradini per raggiungere l’appartamento dove vivo. Oramai è diventata unazione automatica, ma dietro di essa si nasconde una profonda riflessione sulla natura dell’esistenza umana. Ogni gradino, con la sua storia vissuta, diventa il protagonista di una parte del lungo rotolo di carta che si estende per circa 40 metri. Ogni passo sembra inciso nella mia opera, una testimonianza silenziosa del mio percorso quotidiano. E qui mi è venuto in mente il mito di Sisifo, il re condannato nella mitologia greca a perpetuare il suo compito senza fine di portare una roccia fino alla cima di una montagna, solo per vederla rotolare giù di nuovo, ogni volta. Nonostante la fatica e l’apparente assurdità della sua situazione, Sisifo trova un senso, una sorta di felicità insita nel suo destino Nella mia opera rifletto su questa lotta quotidiana su questo ciclo senza fine di azioni e reazioni.
Non c’è una spiegazione definitiva, né una soluzione finale. È solo una sorta di “corsa”, come una giostra infinita, che ci spinge avanti e ci fa sorridere nonostante le difficoltà. La vita stessa è un mistero, un’assurdità che dobbiamo accettare e vivere pienamente.
R.P.: C’è un ulteriore aspetto che trovo molto interessante nelle tue opere più recenti. La leggerezza e la fragilità apparente, sia dei materiali che utilizzi, sia del modo in cui vengono presentati, cela invece tematiche spesso complesse e dolenti, come nel caso di Isteria, un’installazione a parete composta da 441 forcine per capelli piegate e deformate una ad una e successivamente allineate a formare un grande rettangolo dove queste piccolissime sagome di metallo proiettano delicate ombre a fianco e dietro di esse.
B.H.: Per me, le forcine sono più di semplici accessori per capelli. Rappresentano un simbolo femminile, con le loro forme ondulate che richiamano i lunghi e sinuosi capelli.
Un giorno, mentre ascoltavo le notizie sulle proteste contro l’hijab obbligatorio in Iran, casualmente avevo una forcina in mano. Dopo un po’ mi sono resa conto di averla detormata sotto tensione. La forcina deforme sembrava quasi riflettere la mia stessa immagine, simboleggiando ogni individuo che lotta e si trova oppresso. È stato così che ho cominciato a dare le forcine alle persone, chiedendo loro di deformarle seguendo la loro volontà.
Questo processo di deformazione non è solo un atto artistico, ma una rappresentazione della nostra esperienza di vita: cadere, rialzarci e cercare di rimetterci insieme. Le forcine deformate da tante persone diventano cosi un’opera collettiva, simboleggiando la bellezza che puó emergere anche dalla deformazione. In definitiva, questo lavoro di nuovo riflette il senso di bellezza che affiora dall’assurdità della vita. Una semplice azione si trasforma in un simbolo di resistenza e ricerca di significato in un mondo caotico.
R.P.: Vorrei concludere questa interessante conversazione accennando ad un altro elemento molto evidente nei tuoi ultimi lavori. Le opere a cui faccio riferimento e alle quali stai lavorando da un po’ di tempo oltrepassano la dimensione bidimensionale per includere all’interno di esse anche fattori legati all’alterazione della percezione ottica.
Le composizioni sembrerebbero risolte (solo apparentemente) tramite un rassicurante geometrismo fatto di meticolose pieghe di carta dalle quali emergono o si nascondono tutta una serie di parole sovrapposte. In realtà, ancora una volta, la comprensione e il senso del lavoro si rivelano come sempre ad un secondo, terzo livello di lettura.
B.H: Ho voluto ampliare ulteriormente il concetto di distorsione visiva nei miei lavori, includendo la terza dimensione per complicare ancora di più la percezione dell’osservatore. Questo ha creato un’esperienza visiva che mescola caos e ordine, riflettendo la complessità della realtà circostante. Nelle mie opere tridimensionali la profondità è un elemento essenziale che invita l’osservatore a esplorare il lavoro da diverse angolazioni e a reagire al cambiamento prospettico. Questo processo riflette il concetto di prorondità non solo fisica, ma anche concettuale: quanto siamo disposti ad andare oltre la superficie per comprendere la complessità della vita degli altri, soprattutto di quelli che vivono al di là delle nostre esperienze dirette?
In occasione della personale dell’artista presso Hyunnart Studio di Roma, Aprile 2024